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07 novembre 2014

L’INTERNAZIONALE DEGLI AFFARI TEME LA ROULETTE RUSSA DELLE SANZIONI

Interessante articolo di Alberto Brambilla da Il Foglio 

 Nemmeno il presidente americano Ronald Reagan, in piena Guerra fredda, riuscì a portare gli alleati sulle posizioni di Washington e sanzionare la Russia attraverso il blocco dei lavori di costruzione del gasdotto che dalla Siberia avrebbe rifornito di energia l’Europa. L’escalation militare nella Polonia sotto il dominio sovietico, all’inizio degli anni Ottanta, non bastò al democrat Reagan per convincere Francia, Germania e Gran Bretagna (reggente, Margaret Thatcher) a rinunciare agli interessi economici orbitanti attorno al gasdotto. Le banche inglesi e le mire diplomatiche tedesche  vennero, in sintesi, considerate più sostanziali dell’attacco diplomatico a Mosca e un già titubante Reagan – pressato pure dalle aziende Usa coinvolte nel progetto – fu costretto alla retromarcia. Il presidente americano Barack Obama si trova a un bivio simile nel mezzo della crisi ucraina. Dopo l’annessione unilaterale della penisola di Crimea da parte della Russia gli Stati Uniti stanno pensando d’inasprire le sanzioni economiche (oltre a quelle comminate all’indirizzo di notabili e uomini d’affari russi vicini al Cremlino). Il ventaglio sanzionatorio può andare dal congelamento degli asset bancari, al boicottaggio dei prodotti russi (sulla base di uno schema già visto per punire l’escalation atomica del regime iraniano) e coinvolgere anche le esportazioni. 
Negli Stati Uniti, ovviamente, le grandi major rumoreggiano. Ieri circa cento capi azienda hanno partecipato a una tavola rotonda con il segretario alla difesa Chuck Hagel. Le sanzioni sono in agenda. Le preoccupazioni, nell’aria. Le compagnie statunitensi sono la principale fonte d’investimenti diretti esteri in Russia, spaziano dai servizi finanziari alla tecnologia. La divisione aviazione di General Electric che fornisce aeroplani in leasing e ha 54 mezzi in Russia spera di evitare sanzioni pesanti. Il colosso dei jumbo jet Boeing condivide i timori soprattutto per le ripercussioni macroeconomiche della crisi sul trasporto aereo. La lobby della manifattura (National association of manufactures) e quella del commercio (Us Chamber of Commerce, che rappresenta tre milioni di imprese) sono ancor più agitate (“sarebbe economicamente dannoso e non raggiungerebbe gli obiettivi”) soprattutto se Obama dovesse decidere di muoversi unilateralmente non trovando – come sta tentando di fare – l’appoggio degli alleati europei, in particolare dei tedeschi. E’ dalla Germania che sono già arrivate controindicazioni sull’assedio economico a Putin. Basf (chimica), Whinteshall (gas), la Confindustria locale (Bdi) sono critiche. Siemens (comunicazioni), Daimler (automobili), Commerzbank (credito) guardano e aspettano silenti. Per la verità i tedeschi hanno appena fatto buoni affari coi russi: la divisione petrolifera della Rwe è stata comprata da un oligarca vicino a Putin come Mikhail Fridman. I russi hanno chiuso importanti intese anche con l’Italia.
E’ di lunedì l’ingresso del gigante degli idrocarburi Rosneft come primo azionista di Pirelli (con un piede in Mediobanca). Mentre Saipem, controllata da Eni, s’è da poco aggiudicata un appalto da due miliardi per il gasdotto South Stream. Eni ostenta sicurezza circa le forniture di gas. 
Secondo l’ad Paolo Scaroni l’energia non verrà toccata (lo stesso pensano gli americani di Exxon Mobil). Ieri, poi, Confindustria ha avvertito, attraverso la stima del suo centro studi, che sono a rischio 11 miliardi di esportazioni, un terzo riguarda prodotti made in Italy: “I più esposti a un’eventuale escalation delle sanzioni”. Non da ultimo sono le banche inglesi a invitare alla cautela, riportava il magazine International finance review. Preferiscono attendere prima di sottoscrivere altri prestiti verso grandi società russe come VimpelCom (telefonia), Sibur (petrolchimica), Novolipetsk Steel (siderurgia) e Uralkali (fertilizzanti). Ironia della sorte, a proposito di debiti, a guadagnare dall’annessione russa della Crimea sarebbe proprio l’Ucraina che si libererebbe di un fardello da 3,5 miliardi di euro. Un “risultato” economico non voluto, e forse misero rispetto alla posta diplomatica in gioco per quanto i conti di Kiev siano sotto stress al punto da necessitare dei prestiti delle organizzazioni finanziarie internazionali.


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